SLOITA

SENTIRSI A CASA SUL CONFINE, COME A MILANO E LJUBLJANA, SENZA LIMITI

data: 29.07.2019

categoria: nei media

 

IL PRIMO SENATORE SLOVENO A ROMA

Darko Bratina è stato il primo senatore sloveno nel parlamento italiano. A guidare le sue azioni in ambito culturale, sociale e politico erano sempre analisi e visioni globali. I suoi colleghi e amici definivano questa sua capacità con il termine coniato da Wright Mills “immaginazione sociologica”: la capacità di distinguere anche nel caos gli aspetti fondamentali di una società, contribuendo a modificarla e migliorarla.

 

SENTIRSI A CASA SUL CONFINE, COME A MILANO E LJUBLJANA, SENZA LIMITI

Testo di Patricija Maličev

 

A sostenerlo, Darko Bratina aveva anche le sue passioni, misurate ma convinte e tenaci. Anzitutto la passione per la conoscenza e per il cinema, per un'appartenenza consapevole a uno spazio oltre confine, la passione per la politica e il mondo nuovo che annunciava. Nel 1995 presentò al parlamento italiano un disegno di legge per la tutela della minoranza slovena, accolto dopo lungo ritardo solo nel 2001, purtroppo dopo la sua morte. Dopo la sua morte cadde anche il confine tra Slovenia e Italia, tra Gorizia e Nova Gorica. Secondo l’opinione insensata di un politico italiano, oggi sarebbe necessario ripristinare quel confine. Anche per questo motivo, di grande importanza risulta il progetto da poco concluso dell’associazione goriziana Kinoatelje “Fiducia oltre il confine: Darko Bratina tra sociologia e cinema” (una serie di seminari in Italia e Slovenia, ma anche un progetto di educazione cinematografica e la creazione di un sito web sull’eredità accademica, cluturale e politica di Bratina).

 

darkobratina

 

Chi era Darko Bratina

Tutto ebbe inizio sul confine. Nacque il 30 marzo 1942, in mezzo alla guerra, nella parte settentrionale di Gorizia, dove tra i campi coltivati di Salcano e l'Isonzo si parlava liberamente sloveno, italiano e friulano. Nacque in una famiglia slovena che coltivava, oltre che all'amore per la propria cultura, anche l'apertura verso culture diverse. Il padre, Vinko Bratina, originario di Kamnje nella valle del Vipacco, lavorava come meccanico in una ditta di costruzioni, la madre Milka Gorjan, era di Salcano (Solkan), e vendeva verdura al mercato. Fu battezzato nella chiesa di Salcano.

Aveva frequentato la scuola elementare e media slovena, poi nel 1956 decise di iscriversi al liceo scientifico italiano Duca Degli Abruzzi di Gorizia, nonostante avesse sviluppato già in giovane età una chiara appartenenza slovena. Una volta, al Kinoatelje, raccontò ai colleghi e amici più giovani di quanto lo avesse segnato la “sparizione” di diversi suoi compagni di classe delle elementari, che avevano dovuto lasciare improvvisamente la scuola slovena per quella italiana, perché i loro genitori sloveni,  da “optanti” avevano scelto la cittadinanza italiana. Pieno di significato è inoltre il suo ricordo flashback d'infanzia, quasi il torso di una sceneggiatura o saggio sociologico, La domenica delle scope - Metle pometle mejo, pubblicato in entrambe le lingue nella rivista Isonzo-Soča nel 1994 e accessibile in rete.

 

Gorizia, 13 agosto 1950. Avevo otto anni. Al mattino presto arrivò a casa la notizia che in giornata sarebbe stato possibile incontrare i parenti che non vedevamo ormai da tre anni, per la precisione dall'autunno del '47, quando improvvisamente il confine ci separò. Quasi fosse un evento atteso, mio padre prese me e mio fratello e di corsa ci precipitammo al valico di Casa Rossa, senza pensarci un attimo e con inaudita rapidità.

Il valico era piuttosto rudimentale. Qua e là erano dislocati diversi cavalli di Frisia con intorno matasse di filo spinato che si snodavano fin dentro il cortile dell'edificio, oggi sede della Polizia, ma allora ancora uno degli o spedali di Gorizia dove, ci disse papà, anni prima moriva Lojze Bratuž. Al posto dell'attuale palazzina del valico si trovava una nota trattoria, chiamata appunto Casa Rossa per il suo colore esterno e famosa per aver avuto come attrazione un bellissimo pappagallo parlante.

Arrivati a Casa Rossa ci trovammo in mezzo ad un mare di gente composta e silenziosa come fosse in attesa di un rito inedito. Ci mettemmo in fila davanti ad un improvvisato ufficio di polizia dove bisognava dare i propri nomi ed i nomi dei parenti che si presumeva si sarebbero presentati al di là del confine.

Dopo una lunga attesa in fila l'operazione venne espletata. A quel punto ci spostammo in mezzo alla folla per un'attesa ancora più lunga, l'attesa della chiamata che era tutt'altro che sicura. Parecchie ore dopo, orma stanchi per il pesante caldo estivo e con l'angoscia d i dover tornare a casa a mani vuote, ecco che l'agente di polizia, che di tanto in tanto usciva dall'ufficio per chiamare ad alla voce i “fortunati”, pronunciò anche i nostri nomi, segno certo che di là c'era qualcuno ad aspettarci. Varcammo la frontiera in mezzo al filo spinato spostato e per l'occasione sostituito da un grande cordone di canapa, una “fune porta” che di volta in volta veniva aperta dagli agenti di polizia per far passare piccoli gruppi di persone. Pochi passi ed ecco finalmente il luogo degli incontri sotto il cavalcavia ferroviario, tuttora esistente, dove parentele momentaneamente ricostituite si abbracciavano e si scambiavano dei piccoli doni.

Mio padre avvistò subito suo fratello accompagnato da una sorella e da una nostra cugina. L' emozione negli abbracci fu forte. Risa di gioia e lacrime. Scambio veloce di doni e di rispettive notizie familiari e poi di nuovo il distacco. Il tempo concesso era pochissimo, bisognava dare il turno agli altri che erano tanti ed attendevano, come prima noi, tra incertezze e speranze.

Ritornammo di qua, ma lentamente. Ci fermammo in trattoria per dissetarci e forse per restare là un po' di più con la segreta speranza, chissà, di un possibile replay dell'incontro. Commentammo con altri questa situazione così disumana nelle forme ma umanissima nella sostanza, quasi a voler prolungare con altri il colloquio con i parenti troppo bruscamente interrotto.

Era già molto tardi, forse le due del pomeriggio, quando fummo colti tutti di sorpresa nel sentire un incredibile crescendo di volume di voci e rumori della folla, fino ad allora pressoché silenziosa, che culminò in uno strano e sonoro boato umano cui seguirono ondate d i folla in rapida corsa da Casa Rossa verso la città. Si capì immediatamente che il confine era stato forzato dalla massa accaldata delle persone dell'uno e dell'altro versante, in modo del tutto spontaneo. Le rispettive zone confinarie furono letteralmente invase. Le forze dell'ordine si erano rivelate del tutto insufficienti ed inadeguate per bloccare una marea di gente cosi impotente. Il confine era stato rifiutato, rigettato e negato con una pacifica invasione. Che atto di civiltà nel pieno della guerra fredda! Oggi potremmo dire di aver allora assistito alla caduta del “muro di Berlino” prima della sua stessa erezione.

Nella situazione creatasi cercammo nuovamente i parenti per rivederli ma il tentativo andò a vuoto. Dopo un po' mio padre decise di tornare a casa. Successe allora un altro fatto straordinario. La città, invasa dai “clienti” forzatamente assenti da qualche anno, aprì le saracinesche dei negozi, come fosse un evento programmato. In quella assolata domenica d'agosto in pieno pomeriggio miracolosamente rifiorì, seppur per poche ore soltanto, l'antico e naturale commercio della città. In contemporanea al di là del confine, l'abbiamo saputo poi dopo, si riempirono le trattorie ed i tradizionali luoghi delle escursioni domenicali dei goriziani. Nei negozi gli scambi, per mancanza di moneta, avvennero spesso in natura: uova, burro, grappa o qualche gallina contro utensili, caffè ... e tante scope di saggina, merce in quel periodo chissà perché molto rara nel giovanissimo paese realsocialista. Verso sera, al calar del sole, ritornammo ancora nel centro della città osservando lunghe file di persone che ordinatamente tornavano verso Casa Rossa. Di tanto in tanto dalle file spuntavano delle scope ben tenute sulle spalle. Il tutto senza il minimo incidente.

Un'immagine eccezionale. Una domenica indimenticabile passata alla cronaca e registrata nella memoria collettiva come la domenica delle scope. Per una giornata almeno il confine fu “spazzato” e le scope vi apposero una speciale firma ma simbolica. Per me è stato un imprinting forte. Capii allora in modo definitivo la tragedia dei confini e da allora cominciai a sognare la cancellazione di questo nostro confine anche perché, pochi anni addietro, nella mia primissima infanzia non ne avevo mai visti. Avendo assistito alla sua nascita spero di poter vivere abbastanza per assistere prima o poi alla sua definitiva estinzione.

 

Bratina si diplomò nel 1961 e inizialmente si iscrisse alla facoltà di ingegneria a Trieste, ma poco dopo passò alla nuova facoltà di sociologia a Trento. Qui nacque la sua fondamentale vocazione alla fruizione cinematografica con l'approccio analitico e dialettico del cineforum, il nucleo generativo della sua azione culturale attraverso i cineforum.

Molto è stato scritto sulla facoltà di sociologia trentina, più per il successivo clamore del Sessantotto e del terrorismo, mentre la storia delle prime generazioni di laureati dal 1966/67 in poi è stata poco indagata. Bratina e Scandolara formavano con Renato Curcio che poi fondò le Brigate rosse uno strano trio tra il goliardico e l'impegnato, a detta di Scandolara. Bratina fece parte del primo Organismo Rappresentativo Universitario Trentino (Orut). Si dedicò all'organizzazione dei cineforum universitari, all'impegno nella direzione nazionale FIC. Partecipò come relatore ai seminari nazionali FIC, scrisse per la rivista Cineforum e sempre con la firma di Diodato Bratina anche per il quotidiano di Trento l'Adige, con la rubrica di critica televisiva, dedicata ai due canali RAI di allora, tra i primi in Italia.

Sia Tellia che Bratina ben prima della laurea, nel 1966, abbandonano Trento: il primo grazie al prof. Braga e al sociologo italo-americano Edgar Borgatta per una borsa di studio annuale all'Università del Wisconsin, mentre il secondo su segnalazione del prof. Barbano e una borsa del CNR va al Centro di ricerche sull'impresa e lo sviluppo (CeRIS) di Torino.

Bratina si laureò nel 1968 con una tesi su Minoranze etniche: un caso di analisi strutturale. Era impegnato in quanto sociologo nel Progetto Valletta, dedicato all'acculturazione degli imprenditori

Dal 1972 ha insegnato sociologia economica alla facoltà di scienze politiche di Trieste, nel 1976 ritornò definitivamente a Gorizia.

Darko Bratina fu attivo anche nei vertici direttivi del Kulturni dom di Gorizia e dell'Unione economica culturale slovena (Slovenska kulturno gospodarska zveza - SKGZ) a Gorizia e Trieste. Introdusse nel nostro ambiente un approccio innovativo dovuto alla sua formazione dalla psicologia sociale all'analisi sociologica. Fu attivo nell’Istituto Gramsci per il FVG. Dal 1976 fu collaboratore dell’Istituto di ricerca sloveno SLORI e lo diresse dal 1982 al 1992.

 

Sociologia del cinema

Bratina si appassionò di cinema sin da giovane. Durante gli anni dell’università collaborava a diversi cineforum. Per vari anni fu l’inviato del giornale L’Adige al Festival del Cinema di Venezia, e dal 1964 per lo stesso quotidiano tenne una rubrica di critica televisiva. Dal 1965 al 1972 fu membro della Federazione italiana Cineforum. Durante gli studi all’università fondò il cineforum cittadino di Trento e il cineforum Madonna delle Rose di Torino.

Fu un raffinato pensatore cinematografico. “È importante vedere il cinema come un’unità e non solo come singole parti fluttuanti in uno spazio, come se fossero sorte dal nulla. Da qui deriva la necessità di una sociologia ed economia del cinema – ma anche di un’antropologia – non solo come oggetto di ricerche scientifiche fini a se stesse, bensì come premessa per la creazione, il perfezionamento e l’attuazione più cosciente ed efficace di una politica del cinema con radici nazionali specifiche, che possa conquistarsi uno spazio e una prospettiva sicuri, non abbandonati al caso,” scrisse nel 1982 sul giornale Ekran.

“L’analisi sociologica dei film e del cinema sarà tanto più efficace e fondata, quanto più i ricercatori saranno capaci di collegare dialetticamente le proprie passioni cinefile con un armamentario scientifico, per smembrare in modo analitico il cinema e poi ricomporlo nuovamente con modalità sociologiche ed economiche, vedendo nel cinema un fenomeno sociale globale che include tutti i suoi attori sociali – i consumatori, gli autori, le star e le comparse, i produttori, i distributori, i critici, i fan, i giornalisti e tutte le istituzioni, permeati dal linguaggio fatto di immagini e suoni, dal linguaggio cinematografico quindi, in tutte le connotazioni ideologiche e di spettacolo, collegando e formando parti di popolazione nelle singole società, tenendo in considerazione le particolarità storiche e sociali in cui tutto quanto sopra elencato si svolge ossia ne è conseguenza.”

Bratina promosse la traduzione in italiano del libro di Ian Jarvie Sociologia del cinema, per la quale scrisse l’introduzione. Nel 1977 fondò a Gorizia l’associazione cinematografica Kinoatelje, attiva ancora oggi, che ogni anno organizza il festival internazionale Omaggio a una visione, durante il quale viene assegnato un premio che porta il suo nome.

 

Bratina fu il promotore della presentazione del cinema sloveno in Italia e nel 1981, nell’ambito del Kinoatelje, organizzò la prima retrospettiva cinematografica slovena, in collaborazione con la rivista Ekran, il Piccolo Cine Forum e l’Unione dei Circoli Culturali Sloveni ZSKD. Prima di allora, infatti, la cinematografia slovena veniva presentata all’estero solo come parte di quella iugoslava, come se non avesse una propria identità nazionale – e probabilmente non l’aveva ancora. È interessante notare come questo evento storico fosse accaduto proprio a Gorizia, presso la comunità slovena in Italia. Da quest’iniziativa nacque Film Video Monitor, rassegna annuale di cinema, televisione e video sloveni. Bratina fondò anche l’associazione Sergio Amidei, che ogni anno organizza una rassegna cinematografica estiva e assegna il premio Sergio Amidei per la miglior sceneggiatura.

Nel 1997, pochi mesi dopo la sua scomparsa, i suoi amici e colleghi del Kinoatelje Igor Devetak, Aleš Doktorič e Nadja Velušček gli dedicarono la raccolta di saggi Zakaj ne bi počakali jutra?/Perché non aspettiamo l'alba? con contributi di eminenti sociologi, cineasti e politici. Memorabile resta l’intervento del compagno di partito e parlamentare Piero Fassino, ex sindaco di Torino: “Ricordo una sera di 31 anni fa, a Torino. Al Cineforum di cui Darko Bratina era uno dei promotori appassionati proiettavano ‘Pierrot le fou, il bandito delle 11’, l'ultimo film di Jean Luc Godard, l'esponente forse più geniale di quel nouveau cinema che in quel tempo ci appassionava e di cui inseguivamo ogni pellicola. Il film ci era piaciuto moltissimo e, terminata la proiezione, io e Darko ci incamminammo a piedi lungo il Po. Cominciammo subito a parlare del film, a ripercorrere la trama, ad analizzarne passaggi e immagini, per scoprire e capire i mille messaggi che potevano cogliersi in ogni frammento di quell'opera. E così, senza che ce ne accorgessimo, camminammo per molte ore, in una città sempre più deserta. Facemmo le quattro del mattino e, a quel punto, Darko disse: “Perché non aspettiamo l'alba?” Ritornammo in riva al Po e mentre camminavamo, Darko si mise a ricordare tutte le immagini di albe che aveva visto nei film o di cui aveva letto nelle sceneggiature: l'alba trasfigurata dell" ‘Ordet’ di Drever, l'alba tragica di Carné, l'alba livida de ‘La terra trema’ di Visconti, le albe di speranza dei film di Rossellini. E di ciascuna immagine Darko ricostruiva il contesto, interpretava i messaggi, traduceva i significati...”

 

Politica e confini

Nel 1992 Bratina fu eletto senatore sulla lista del PDS nella circoscrizione di Gorizia, diventando il primo senatore goriziano sloveno nel parlamento italiano. Nel 1994 fu rieletto sulla lista dei progressisti e nel 1996 su quella dell’Ulivo. Tra le numerose funzioni da parlamentare va ricordato soprattutto il suo lavoro nella commissione esteri del senato, la partecipazione in qualità di membro della delegazione italiana al Consiglio d’Europa e all’Unione dell’Europa occidentale (UEO), e dal 28 novembre 1996 il suo ruolo di presidente della delegazione italiana presso la CEI − Iniziativa Centro Europea. Nel 1995 presentò al parlamento italiano un disegno di legge per la tutela della minoranza slovena, ma molto prima, in particolare nel periodo in cui la Slovenia mirava alla propria indipendenza, Bratina sosteneva con forza che le minoranze non devono diventare oggetto di mercanteggiamenti tra i Paesi.

Darko Bratina fu attivo anche nei vertici direttivi del Kulturni dom di Gorizia e dell'Unione economica culturale slovena (SKGZ) a Gorizia e Trieste. Introdusse nell’ambiente goriziano un approccio innovativo dovuto alla sua formazione dalla psicologia sociale all'analisi sociologica. Fu attivo presso l’Istituto Gramsci del FVG e co-fondatore del Gruppo 85.

Secondo il dott. Miran Komac dell’Istituto per le questioni nazionali, amico e collega di Bratina, il confine è stato al centro della riflessione sociologica e umanistica del sociologo goriziano: “I confini etnici e politici, la combinazione di entrambi e soprattutto il loro superamento lo accompagnarono a ogni passo del suo percorso di ricerca. A quest’ambito va ricondotta anche la problematica relativa alla minoranza nazionale. L’ambiente in cui Darko visse (Gorizia, una città in cui convivono cinque etnie – italiani, sloveni, friulani, tedeschi ed ebrei), costituì l’humus ideale per un’analisi dei rapporti intra e interetnici. Ma qual era il suo approccio alla costruzione di un sentimento di fiducia transfrontaliera? Di confini in questo territorio ce n’erano parecchi. I confini tra gli sloveni con diverse visioni del mondo e diversi orientamenti ideologici nel Goriziano. All’inizio degli anni '80 del secolo scorso erano ancora in vita tutti gli attori implicati nei conflitti intra e postbellici, per cui la pacificazione era difficile. Quando Darko Bratina nel 1991 o nel 1992 presentò la proposta di un convegno/incontro sulle battaglie ideologiche successive alla Seconda guerra mondiale nel Goriziano, invitò a collaborare anche me. Per l’occasione preparai un contributo intitolato Elementi za analizo političnih procesov znotraj slovenske manjšine na Goriškem po drugi svetovni vojni (Elementi per un'analisi dei processi politici all'interno della minoranza slovena nel Goriziano dopo la Seconda guerra mondiale). Qualche anno più tardi Darko cominciò a collaborare con la rivista Pretoki4 in qualità di presidente del comitato di redazione. In quel periodo vennero pubblicati molti testi interessanti. Tra i collaboratori c'ero anch'io, e nel numero monografico intitolato Zgodovinski premiki (Mutamenti della storia) pubblicai un articolo piuttosto corposo dal titolo Levo in desno med goriškimi Slovenci (A sinistra e a destra tra gli sloveni di Gorizia). In esso analizzavo i processi politici svoltisi in seno alla minoranza slovena nel Goriziano nei primi anni dopo il secondo conflitto mondiale. I confini erano presenti anche tra ricercatori sloveni e ricercatori italiani. Darko faceva parte di quel gruppo di affermati ricercatori e docenti universitari della minoranza slovena in Italia, che sapevano muoversi con sicurezza nell'ambiente universitario italiano. Così poté contribuire a rafforzare il senso di fiducia tra i due diversi “blocchi” etnici.

Infine ci sono i confini tra la minoranza slovena e gli sloveni della nazione madre, qualsiasi cosa possa significare in questo contesto il termine madre. Darko Bratina operava sempre sia a livello locale sia a livello nazionale. Riguardo al primo rammento in particolare la bozza del progetto Grad in vrtnica (Il castello e la rosa), che era sinonimo di collaborazione tra Gorizia e Nova Gorica. A livello nazionale Darko lavorò invece sul rapporto tra la Slovenia e l’Italia e le loro rispettive minoranze, quella slovena in Italia e quella italiana in Slovenia (e in Croazia). “È indubbio che lo stato che è espressione della nazionalità slovena debba occuparsi dello sviluppo di quelle parti del proprio corpo nazionale che vivono al di fuori dei suoi confini statali, sia sparse per il mondo sia lungo il confine. In questa prospettiva la priorità va data in primo luogo a coloro che vivono nell’area confinaria e che di fatto sono in continuo contatto con la nazione madre. Tuttavia, va sottolineato che ciò deve trovare attuazione (nel caso della minoranza slovena in Italia e di quella italiana in Slovenia) soprattutto nell’ambito di un impegno internazionale sottoscritto dalla Slovenia e dall’Italia. In quanto a quest’ultima, essa ha il dovere di risolvere per vie democratiche la questione dei cittadini italiani di diversa nazionalità, così come la Slovenia ha il dovere di risolvere le questioni attinenti alla minoranza italiana di cittadinanza slovena. Un rapporto democratico e corretto tra cittadini può fondarsi unicamente su uno specifico patto costituzionale. Habermas lo chiama patriottismo costituzionale. L’unico genere di patriottismo che Habermas ritiene legittimo, è quello costituzionale. Purché, naturalmente, si tratti di una costituzione democratica. Sulla base di questo patto io, come sloveno che vive in Italia, sono un suo cittadino a tutti gli effetti, tanto da esserne perfino un parlamentare. Ed è sempre sulla base di questo patto che ho diritto alla mia diversità. E lo stato in cui vivo ha il dovere di riconoscere questa mia diversità. Perché io in questo Paese non sono un ospite, ma ci vivo. Per questo sarebbe piuttosto assurdo se il mio permesso di ‘risiedere’ a casa mia o no, dovesse dipendere da un qualsiasi governo. Assurdo sarebbe anche che dovessero essere i singoli governi a permettermi di volta in volta, quasi facendomi una specie di concessione, di esprimere la mia diversità etnica.”

Vanno infine menzionate anche la collaborazione transfrontaliera tra istituti di ricerca e la collaborazione transfrontaliera tra ricercatori che si occupano dei rapporti interetnici e quelli che studiano questioni legate alle minoranze nazionali. Grazie a esse sono stati organizzati i Laboratori etnici promossi da quattro istituti.  L’idea prese forma e maturò in anni in cui tutti gli istituti di ricerca cooperanti stavano vivendo un qualche tipo di dissoluzione della concezione tradizionale del proprio lavoro. Gli istituti coinvolti erano l’Inštitut za narodnostna vprašanja  (Istituto per lo studio delle questioni etniche) di Lubiana, il Centro di ricerche storiche di Rovigno, lo Slovenski raziskovalni inštitut (Istituto sloveno di ricerche) di Trieste e lo Slovenski znanstveni inštitut (Istituto di ricerche scientifiche) di Klagenfurt. A questo proposito vale la pena di ricordare che si trattava di anni in cui i confini (fisici e psicologici) erano ancora molto solidi.

In un epoca di brutale neoliberalismo, in cui vige una lotta spietata per ogni briciola di ricerca, in cui il ricercatore s’interroga sul senso del proprio operato, quando ai veri ricercatori viene rinfacciata la mancanza di innovazione, la riflessione di Darko Bratrina assume un significato importante: “Permettetemi di aggiungere qualche ulteriore parola sull’originalità: riguardo a essa direi che ne abbiamo in quantità notevole, ma abbiamo anche parecchi complessi. Da questo punto di vista dovremmo renderci conto che nel nostro ambiente minoritario nemmeno il più altisonante dei nomi, in ambito mettiamo sociologico, potrà mai essere la garanzia di un contributo specialistico di vera eccellenza; a un simile autore difetterà sempre quel particolare quid che invece noi abbiamo; perché noi abbiamo tradizione, esperienze e vissuto.”

 

Un sociologo prestato alla politica

“L'identità principale di Bratina era di natura sociologica. È però anche palese che la sua conoscenza della teoria politica era incredibilmente vasta,” dice Fabio Vizintin, sindaco di Doberdò del Lago – Doberdob e sociologo. “Al terzo confronto elettorale la sua comunicazione politica risulta ineccepibile ed impeccabile, tuttavia l'identità del ricercatore sociale rimane dominante. Ciò emerge in particolar modo quando Bratina si ritrova a parlare del suo territorio. Nell'intervista con il foglio informativo OFF (pubblicato anche dal Primorski dnevnik in data 22 settembre 2002), parlando di Gorizia dichiara: ‘Un luogo non si può mai distruggere. Non tanto il luogo inteso in senso fisico, ma luogo in cui si sono condensate ricchezze culturali. Si può nascondere, occultare, ma non sopprimere. Se gli uomini in quel contesto continuano a vivere, anche se vengono dal di fuori, prima o poi riscoprono i valori e la qualità del luogo e la rimettono in circolazione attiva. Proprio chi ha vissuto delle limitazioni non potendo avere tutte le risorse a disposizione, quando si presenta la possibilità che queste risorse riemergano, saprà sfruttarle con una forza rinnovata. Nel nostro caso si sta, pur tra difficoltà, ricostituendo il tessuto quale era prima delle guerre mondiali, per il normale svilupparsi della storia. Con l'ingresso dell'Austria nell'Unione europea un confine è già caduto, quando entrerà nell'U.E. anche la Slovenia cadrà anche l'altro. Così il territorio potrà riorganizzarsi con i requisiti che ha avuto per diversi secoli: ecco qual è la vendetta della storia! Il discorso di Gorizia non può essere diviso dal Nord-Est dell'Italia. Anzi il Nord-Est è l'unica area in forte sviluppo nell'Italia di oggi. Ci sono risultati economici incredibili, ma l'area goriziana non ne ha ancora beneficiato. Dobbiamo porci il problema di questa area semidepressa che è l'Est nel NE, ma confina con il SU della Slovenia, dove, rispetto al versante italiano, ci sono differenze notevoli. A Gorizia l'età media è molto elevata mentre a Nova Gorica la struttura demografica è molto più giovane. Potrebbe essere una opportunità trasformando questo contrasto in una situazione di complementarietà. Secondo me la prima regola per dar forza a realtà imprenditoriali è trasformare gli ostacoli in opportunità. Poi vi sono differenze di attività economiche che potrebbero essere complementari, sopratutto per ciò che riguarda i servizi. A Gorizia si sviluppano iniziative con un occhio vigile sul centro Europa, ma per realizzare ciò Gorizia ha l'esigenza di passare per la Slovenia. Bisogna cioè appoggiarsi a qualche luogo della Slovenia che potrebbe essere Nova Gorica, così come la Slovenia attraverso Gorizia potrebbe interagire più facilmente nel NE e con tutto il Nord Italia. Questa prospettiva si può sviluppare solo se riusciremo a darle dei contenuti fortemente culturali, in senso moderno. Si tratta di portare alla luce quella sedimentazione plurisecolare che ha sviluppato l'abitudine di interagire con altre culture  ed altre lingue. Gorizia ha avuto nel passato la compresenza di quattro codici linguistici, o anche cinque, quando anche il francese era qui più presente (ce ne sono tracce anche nei cognomi), è come trovarsi in una città ricca di stili architettonici. L'architettura è ben visibile, mentre la presenza culturale non è immediatamente visibile; tuttavia essa emerge osservando non solo i musei, ma il modello culturale presente nel tessuto goriziano.’

“In questo frammento emerge in tutta la sua grandezza il sociologo che con le sue esemplari competenze politiche descrive meravigliosamente lo stato della città di Gorizia dell'epoca e ne spiega le prospettive,” continua Vizintin. “Ad emergere è anche il suo motto di vita “pensare globalmente, agire localmente”. Bratina riteneva infatti che andavano sviluppate delle strategie globali che andavano poi adattate ai sistemi culturali locali. Risulta poi palese che il Bratina sociologo disponesse di una notevole conoscenza anche delle teorie sociologiche più recenti, fra cui quella della glocalizzazione. La glocalizzazione rappresenta il bisogno di un azione globale e al contempo locale che porta uno spostamento dall'equilibrio delle forze fra Stati ad un equilibrio fra interessi culturali e bisogni locali da una parte e le opportunità globali dall'altra. Diverse teorie economiche sostengono che il futuro non si trovi più nei massimi sistemi, ma in piccole strutture flessibili collegate in reti. Proprio questo consentirebbe anche a delle piccole realtà di potersi inserire attivamente nel flusso mondiale di eventi e di collegarsi con luoghi molto distanti sul pianeta. In quest'ottica Bratina descrive chiaramente la prospettiva che si offriva e che continua ad offrirsi a Gorizia in quel tempo. Se nel mondo contemporaneo la città sull'Isonzo vorrà continuare ad offrire delle prospettive di sviluppo ai suoi abitanti, dovrà riappropriarsi delle sue radici culturali, taciute ed oppresse specialmente durante il ventesimo secolo. Le radici vanno poi curate, visto che solo in questa maniera Gorizia potrà andare oltre la sua marginalità e riuscirà ad ottenere un ruolo che le può assicurare un futuro migliore. Bratina aveva preparato dei progetti chiari per il suo territorio, progetti che rappresentano la sua eredità politica. Gorizia non deve fungere esclusivamente da difensore di un'identità fittizia, ma deve sfruttare tutto ciò che si ritrova su entrambi i lati del confine: dagli ospedali al rendere il Collio un'unica area vitivinicola. Gorizia deve riorganizzare le sue strutture post-confine, deve sviluppare le sue università per trasformarle in punti di incontro fra Europa occidentale e orientale, creare una moderna rete mediatica e un'organizzazione urbanistica in grado di integrarsi logicamente con Nova Gorica. Solo così potrà trovare la sua dimensione ideale nel cosiddetto “villaggio globale”. In caso contrario il suo futuro sarà talmente distante dal centro degli eventi, che perderà qualsiasi ruolo abbia avuto in passato.”

Ma cosa ha fatto Gorizia con l'eredità ideale di Bratina a 22 anni dalla sua morte? “Le idee di Darko Bratina sono rappresentate dai primi progetti sulla sanità transfrontaliera e sull'integrazione infrastrutturale, dal Gruppo europeo di cooperazione territoriale, dal Palazzo del cinema in Piazza Vittoria, dalla legge di tutela, dal Kinemax, dalla mediateca, dal Trgovski dom, dalla candidatura a Capitale europea della cultura 2025, dalla proposta di inserimento del Collio nella lista Unesco dei patrimoni dell'umanità. La sua figura viene ricordata in modo diretto e indiretto da tutte le iniziative che si stanno sviluppano in questi ultimi anni. Purtroppo, dobbiamo anche ammettere che è stato l'ultimo visionario dello spazio goriziano e che le sue proposte si stanno realizzando appena a due decenni dalla sua morte.

Purtroppo, la maggioranza ha avuto bisogno di una grave crisi economica e di un quarto di secolo per capire ed accettare la sua visione. Mi chiedo se non lo abbia fatto troppo tardi. Bratina capiva il futuro prima che accadesse, ragionava in maniera non convenzionale e si distingueva dal pensiero comune del suo tempo. Era un visionario che aveva anche il coraggio di dare adito alle sue visioni. Aveva inoltre compreso che solo le nuove generazioni avrebbero potuto concretizzare le sue idee, pertanto amava trascorrere il suo tempo con loro nel tentativo di valorizzarle. La sua eredità rappresenta per l'intero territorio del Friuli Venezia Giulia una ricchezza straordinaria, tuttavia: »non sempre i patrimoni vengono sufficientemente capitalizzati dalle singole generazioni. Grandi famiglie aristocratiche e moderne sono capaci di dilapidare un patrimonio nell'arco di una generazione. La stessa dilapidazione può avvenire per quanto riguarda i patrimoni etnico-linguistici con o senza la collaborazione dello Stato.”

Nel 1986 Bratina scrisse nella rivista Teritorij/Il Territorio: “La normalità è un privilegio.” La normalità significava per lui la coesistenza di italiani e sloveni e allo stesso tempo la possibilità di esprimere a pieno la propria identità. Ma significava anche sentirsi a casa sul confine come a Milano o Ljubljana, senza ostacoli di sorta. Secondo lui non era difficile, tutt’al più affascinante.

Morì in seguito a un infarto il 23 settembre 1997 a Strasburgo, più precisamente nel paese di Obernai, durante una pausa della sessione del Consiglio europeo, durante la quale, nella mattinata, aveva parlato della tutela delle minoranze linguistiche.

 

- Sobotna priloga, Delo, 27. luglio 2019