Darko Bratina
Darko Bratina (Gorizia 1942 – Obernai 1997) è nato su un confine dove si mescolano le tre parlate, italiana, friulana e slovena.
Unendo rigore metodologico e passione intellettuale, è stato un “sociologo applicato” e un "ingegnere sociale" il cui percorso si misura soprattutto in campo sociale, culturale e politico, nelle attività che ha ispirato, fondato o accompagnato alla realizzazione.
Appassionato studioso di cinema, ricercatore sociale e docente universitario in discipline sociologiche prima a Torino e in seguito a Trieste e Gorizia, direttore dell’Istituto sloveno di ricerche SLORI di Trieste, ha contribuito ai processi innovativi nella comunità slovena in Italia ed è stato uomo di dialogo nella composita realtà regionale del Friuli Venezia Giulia e nei rapporti con la vicina Slovenia. Attento osservatore dei profondi cambiamenti nell’est europeo e nei Balcani dopo la caduta del muro, viene eletto per tre volte senatore della Repubblica, svolgendo incarichi istituzionali anche in vari organismi internazionali.
SCOPRITE DI PIU' SU DARKO BRATINA SUL SITO DARKOBRATINA.NET
Darko Bratina sul Cinema Vittoria
Vi invitiamo a guardare la trasmissione Mikser, andata in onda sul Programma sloveno della Sede Regionale RAI per il Friuli Venezia Giulia, che racconta la storia del Cinema Vittoria, una delle più antiche sale cinematografiche di Gorizia. Nel 1996, in occasione dell’inizio dei lavori di restauro, gli autori hanno realizzato questo servizio per conservare la memoria del cinema prima della sua trasformazione nell'attuale Kinemax.
Nei suoi ricordi, Darko Bratina racconta le diverse facce di questo palazzo del XVIII secolo, che nel tempo ha ospitato anche un negozio di pianoforti, prima di diventare un centro per la vita sociale e per l'arte cinematografica. A riflettere sul suo significato ieri e oggi sono anche Noemi Rener e Igor Prinčič.
La trasmissione è stata realizzata da Igor Devetak, Aleš Doktorič, Nadja Velušček e Maša Tomadini di Kinoatelje, insieme a Martina Repinc (RAI).
La domenica delle scope
Una testimonianza del candidato al Senato
Darko Bratina
Isonzo Soča, Nr. 13 (primavera 1994), pp. 7-9
Gorizia, 13 agosto 1950. Avevo otto anni. Al mattino presto arrivò a casa la notizia che in giornata sarebbe stato possibile incontrare i parenti che non vedevamo ormai da tre anni, per la precisione dall'autunno del '47, quando improvvisamente il confine ci separò. Quasi fosse un evento atteso, mio padre prese me e mio fratello e di corsa ci precipitammo al valico di Casa Rossa, senza pensarci un attimo e con inaudita rapidità. Il valico era piuttosto rudimentale. Qua e là erano dislocati diversi cavalli di Frisia con intorno matasse di filo spinato che si snodavano fin dentro il cortile dell'edificio, oggi sede della Polizia, ma allora ancora uno degli ospedali di Gorizia dove, ci disse papà, anni prima moriva Lojze Bratuž. Al posto dell'attuale palazzina del valico si trovava una nota trattoria, chiamata appunto Casa Rossa per il suo colore esterno e famosa per aver avuto come attrazione un bellissimo pappagallo parlante.
Arrivati a Casa Rossa ci trovammo in mezzo a un mare di gente composta e silenziosa come fosse in attesa di un rito inedito. Ci mettemmo in fila davanti a un improvvisato ufficio di polizia dove bisognava dare i propri nomi e i nomi dei parenti che si presumeva si sarebbero presentati al di là del confine. Dopo una lunga attesa in fila, l'operazione venne espletata. A quel punto ci spostammo in mezzo alla folla per un'attesa ancora più lunga, l'attesa della chiamata che era tutt'altro che sicura. Parecchie ore dopo, ormai stanchi per il pesante caldo estivo e con l'angoscia di dover tornare a casa a mani vuote, ecco che l'agente di polizia, che di tanto in tanto usciva dall'ufficio per chiamare ad alta voce i «fortunati», pronunciò anche i nostri nomi, segno certo che di là c'era qualcuno ad aspettarci.
Varcammo la frontiera in mezzo al filo spinato spostato e per l'occasione sostituito da un grande cordone di canapa, una «funeporta» che di volta in volta veniva aperta dagli agenti di polizia per far passare piccoli gruppi di persone. Pochi passi ed ecco finalmente il luogo degli incontri sotto il cavalcavia ferroviario, tuttora esistente, dove parentele momentaneamente ricostituite si abbracciavano e si scambiavano dei piccoli doni.
Mio padre avvistò subito suo fratello, accompagnato da una sorella e da una nostra cugina. L'emozione negli abbracci fu forte. Risa di gioia e lacrime. Scambio veloce di doni e di rispettive notizie familiari e poi di nuovo il distacco. Il tempo concesso era pochissimo, bisognava dare il turno agli altri che erano tanti e attendevano, come prima noi, tra incertezze e speranze.
Ritornammo di qua, ma lentamente. Ci fermammo in trattoria per dissetarci e forse per stare là un po' di più con la segreta speranza, chissà, di un possibile replay dell'incontro. Commentammo con altri questa situazione così disumana nelle forme, ma umanissima nella sostanza, quasi a voler prolungare con altri il colloquio con i parenti troppo bruscamente interrotto.
Era già molto tardi, forse le due del pomeriggio, quando fummo colti tutti di sorpresa nel sentire un incredibile crescendo di volume di voci e rumori della folla, fino ad allora pressoché silenziosa, che culminò in uno strano e sonoro boato umano cui seguirono ondate di folla in rapida corsa da Casa Rossa verso la città. Si capì immediatamente che il confine era stato forzato dalla massa accaldata delle persone dell'uno e dell'altro versante, in modo del tutto spontaneo. Le rispettive zone confinarie furono letteralmente invase. Le forze dell'ordine si erano rivelate del tutto insufficienti ed inadeguate per bloccare una marea di gente così imponente. Il confine era stato rifiutato, rigettato e negato con una pacifica invasione. Che atto di civiltà nel pieno della guerra fredda! Oggi potremmo dire di aver allora assistito alla caduta del «muro di Berlino» prima della sua stessa erezione.
- Darko Bratina